Basta un camice bianco per cambiare vita a 50 anni (uscito in Aprile 2013 sul settimanale femminile A di RCS)
Basta un camice bianco per cambiare
vita a 50 anni
di Giulia Dedionigi
Quell’impulsivo
desiderio di ribellione e fuga tipico della giovane età, sta contagiando ora
anche i professionisti in carriera. Stiamo parlando dei tanti medici di base,
chirurghi e addirittura primari che scappano dall’Italia, con mogli e figli al
seguito, alla volta di mete esotiche come le Hawaii, verso paesi nordici, su
tutti la Svezia, o ancora nei lontani Qatar ed Emirati Arabi. Sono cinquantenni
pronti a cambiare casacca, camice bianco in questo caso, nonostante un posto
fisso e un curriculum su più pagine. Si tratta di una sorta di ‘globalizzazione
della sanità’ che apre le porte degli ospedali stranieri ai medici italiani e
che prende forma dalla voglia di migliorare la propria carriera, offrendo però
allo stesso tempo, tante opportunità per tutta la famiglia.
Quando provo a
chiamare Gregorio
Maldini, chirurgo di 48 anni, dall’altra parte del telefono sento
una voce sorridente che dice: “Aloha, con chi parlo?”. Sì, perché per intervistare
il medico che ha effettuato il primo trapianto pediatrico di
intestino mai eseguito in Italia, bisogna comporre un numero hawaiano. “Sono di Roma, ma ho lavorato a Bergamo
– mi racconta Gregorio da Honolulu -. Lì eseguivo cento interventi all’anno,
oggi ne posso contare settecento. Qui non esistono liste d’attesa infinite per
i pazienti e, a differenza di quello che si dice, si curano gratuitamente anche
malati senza assicurazione”.
Non sono state solo l’aria pulita, il
mare e le temperature calde, comunque, a convincere Gregorio e sua moglie, una
romagnola doc, a lasciare amici e parenti: oggi il suo stipendio si aggira
intorno ai 300mila dollari all’anno, quattro volte il suo compenso italiano.
“Il sistema americano è completamente diverso: non c’è una gerarchia da
superare per poter effettuare determinate ricerche, lavora chi è capace e chi
viene giudicato positivamente dai pazienti. Abbiamo un rating e degli standard
da mantenere: se non li rispettiamo, siamo fuori, licenziati. È la voglia di
mantenere il posto fisso che blocca il mercato italiano”.
Non si parla, quindi, solo di cifre da
capogiro. Si parla anche di frustrazioni, di clima poco sereno e sistemi lenti
e obsoleti: “In Italia – racconta Giovanni Righetti, presidente dell’ordine dei
medici di Latina -, mancano gli stimoli. Negli Stati Uniti, dove lavorano ben
5500 medici italiani, il gruppo più numeroso di stranieri, s’incoraggia l’iniziativa del singolo,
lo si protegge di più in termini di necessità e bisogni per la sperimentazione.
Se devi eseguire una Tac, non aspetti per giorni prima di avere il macchinario
necessario. E poi chi vuole restare in un Paese così travagliato? L’Italia oggi
non è un stabile”.
In Inghilterra è appena partita una
campagna per rivedere e rivalutare i medici del paese: durerà quattro anni e
servirà per testare i professionisti degli ospedali. Una specie di nuova
abilitazione: “Essere sempre sottoposti a verifica – continua Righetti - può
essere stancante, soprattutto per chi ha già alle spalle 20 o più anni
d’esperienza. Eppure solo così un sistema può definirsi davvero meritocratico”.
Guardando all’Europa, su internet le
offerte più ‘cliccate’ riguardano, oltre all’Inghilterra, anche Francia, Belgio
e Svezia: “E’ solo per motivi personali che puoi decidere di tornare. Non ci
sono ragioni professionali che ci trattengono in Italia”. Valentina Mazza, si occupa di
ricerca biomedica su malformazioni congenite. È stata per cinque anni a Londra
e adesso, rientrata a Milano, sta aspettando l’occasione giusta per emigrare di
nuovo: “Quello che mi fa più rabbia è che siamo i più qualificati a livello
teorico. Poi, ai chirurghi italiani tocca stare per vent’anni a guardare in
sala operatoria il medico più anziano che si occupa delle manovre più delicate.
A quarant’anni i medici sono
ancora considerati giovani e si occupano di far da badanti ai primari”.
Per assurdo la pensa così anche Stefano Pecora,
55 anni, proprio un primario di laboratorio d’analisi. Ha appena inviato il suo
curriculum a un’importante headhunter, un cacciatore di teste che si occupa del
settore sanitario: “Sto valutando offerte per Doha e Abu Dhabi, dove ci sono
strutture di un certo livello, all’avanguardia con la ricerca scientifica e
soprattutto con posizioni aperte per medici italiani. In questi paesi noi siamo
davvero ben considerati”. Con lui, sono pronti a far le valigie una moglie e
due figli, di dieci e dodici anni: “Quando ti assumono - racconta -, oltre a
darti uno stipendio tre volte superiore a quello italiano, si occupano anche
del vitto e dell’alloggio per te e tutta la famiglia. Ho ancora la presunzione
di voler far carriera con le mie sole forze: per crescere non voglio dovermi
aggregare a partiti o movimenti. In paesi in pieno sviluppo come questi, poi,
ci sono anche più opportunità per i miei figli”.
Il ‘periodo d’incubazione’ del piano di
fuga non è velocissimo, proprio perché, ad un certa età, è bene riflettere con
calma: “Io sono stato in Germania due volte prima di decidermi a trasferirmi a
più di dodicimila km da casa – dice Marco Giannecchini, 53 anni, medico toscano
trapiantato a Berlino -. Ho lavorato in ospedale in tirocinio per due anni e
poi ho voluto imparare bene la lingua”. Ora è responsabile manageriale dei
progetti medico-scientifici dell’azienda farmaceutica Bayer.
Segue queste ormai anche Elisabetta Songiu,
medico di famiglia di 61 anni, di origine sarda, che da due mesi frequenta un
corso d’inglese fulltime. Sta per partire, con marito e figlio di 21 anni, per
la Nuova Zelanda: “Ho mandato una mail – dice - e, in una settimana, mi sono
arrivate quattro proposte di lavoro per aprire uno studio. In Italia la
professione è ormai ingestibile, per via dell’eccessiva burocrazia. Le norme
cambiano in continuazione, fino a complicarsi a dismisura”.
All’ordine dei medici di Milano sono
tanti i camici bianchi, come Stefano ed Elisabetta, in coda per scappare.
Roberto Carlo Rossi, il presidente dell’ordine, ha sulla scrivania un plico
altissimo di ‘good standing’ da firmare: “Si tratta – mi spiega – di documenti
che attestano l’iscrizione di un medico all’albo e la mancanza di procedimenti
disciplinari a suo carico. Sa a cosa servono? A fare domanda per impieghi
all’estero”. Fino a pochi anni fa era una prassi comune ai neolaureati, ora è
cambiata la generazione dei ‘bisturi in fuga’: “quello che mi sorprende ancora
di più, è che arrivano tantissime offerte di lavoro per primari e medici
specializzati. Segno della mobilità del mercato internazionale e segno anche
della voglia degli italiani di rimettersi in gioco a qualsiasi età”.